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MotoGP

Maverick Vinales, grazie Dovizioso per averlo evitato

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La caduta di Maverick Vinales ad Assen fa affiorare il ricordo di un episodio molto simile, con un finale molto più drammatico. La storia dello sfortunato Craig Jones

Poche ore fa, navigando in rete, mi è capitata tra le mani un’immagine della gara di Assen di Domenica scorsa, nella quale è ben chiaro quanto si sia rischiato con la caduta di Vinales. Durante la telecronaca si era capito piuttosto bene con quale perizia Dovizioso fosse riuscito ad evitare l’impatto con il pilota della Yamaha che era appena finito a terra, ma solo guardando quella foto ho realizzato la vera entità del rischio corso. Così ho condiviso questa immagine su Facebook, con un solo, breve commento: Grazie, Andrea.

Alcuni amici hanno commentato la foto, meravigliandosi anche loro di quanto Dovizioso sia passato vicino a Vinales. Un commento, però, mi ha colpito più di altri. Era il pensiero di un amico appassionato di due ruote almeno quanto me, che della moto ne ha fatta una passione e un lavoro: Francesco Gulinelli. La sua frase, lapidaria, era: «Mi è venuto in mente Craig Jones»

Facebook, come sapete, nacque con scopi ben differenti da quelli che oggi conosciamo tutti. Ciò che mi meraviglia di questo social network sono le emozioni che a volte riesce a regalarci. Una delle più grandi me la donò meno di un anno fa, nel settembre scorso. Mi piacerebbe condividerla con più persone possibili e quindi eccomi qui, a buttare giù alcune righe. Tutto ebbe inizio durante una giornata come tante altre, nella quale mi ritrovai, mio malgrado, a leggere l’ennesimo commento di qualcuno che sperava nella caduta o nella morte di un pilota. Non ricordo nemmeno chi fosse a scriverlo così come non rammento neppure a quale pilota fosse rivolto un simile augurio.

Ricordo solo che provai un sentimento misto di rabbia, delusione e amarezza. Così, sperando di sensibilizzare anche solo una persona, pubblicai una foto di Craig Jones ed espressi ciò che avevo nel cuore: «Vi avviso, è un post un po’ lungo ma è scritto col cuore, credo che valga la pena di perdere 10 minuti per leggerlo. Decidete voi, io inizio. Nel 2008 ero capomeccanico di Jakub Smrz, un pilota velocissimo che aveva però nella partenza il suo tallone d’Achille. Era un ragazzo dal cuore grande, sempre disponibile e sorridente. Il suo carattere contribuiva tantissimo a creare armonia nel box. Il primo weekend di agosto si svolgeva il decimo Round del campionato, a Brands Hatch. E’ una pista particolarissima, con discese, salite e priva di un vero rettilineo; al suo posto c’è un tratto di pista leggermente curvilineo e con diverse pendenze. Era ancora l’epoca della “vecchia” Superpole, quella bella, quella del giro secco. Purtroppo il sabato, al momento della Superpole e come succede spesso in Inghilterra, pioveva. Si partì quindi con la procedura della Superpole “wet”, un’ora di tempo e un tetto massimo di giri per realizzare il miglior crono. Con una buona strategia riuscimmo a conquistare la pole position temporanea e, al termine dell’ora prevista, eravamo in prima fila, quarti, perché all’epoca si partiva ancora in file da 4. Davanti a noi c’erano solo Bayliss, Haga e Kiyonari. Eravamo riusciti a mettere dietro gente come Corser, Sykes e Biaggi. La gara andò benino, concludemmo al nono posto. Al termine del parco chiuso ritirammo la moto ed eseguimmo gli interventi necessari per affrontare gara 2. Fortunatamente, quella volta, i lavori da fare sulla moto erano pochi e quindi decidemmo di andare al muretto a vedere la gara della Supersport, che si stava svolgendo in quei minuti. Per chi è stato a Brands Hatch la descrizione dei muretti è superflua, ma per chi non ha mai messo piede nel Kent, è importante sapere che i muretti di Brands sono particolari. Iniziano nel mezzo della curva che immette nel “rettilineo” e, seguendo il tracciato, sono curvi. Infatti chi ha la sfortuna di avere il box in prossimità della curva ha anche l’onere di segnalare i tempi al proprio pilota più avanti, molto lontano dal proprio garage, perché in curva un pilota non ha sicuramente il tempo di leggere la tabella. Ma la cosa più particolare è che la prima parte della corsia dei box è molto più in basso rispetto al tracciato e così, per raggiungere il muretto, bisogna salire delle scale. Purtroppo queste scale sono lontane e, quindi, i team che come noi in quell’occasione hanno il box in curva, appoggiano al muretto delle normalissime scale a pioli sulle quali i tecnici si arrampicano. Una volta in cima si ha un’ottima visuale dei piloti che percorrono l’ultimo curvone a destra, tenendo gli occhi fissi sull’asfalto. Dai monitor nel box avevamo già un’idea di che gara fosse. Rea e Pitt, con le Honda ufficiali, duellavano a denti stretti con Craig Jones. Gli altri erano molto più indietro. Come dicevo, decidemmo di guardare le fasi finali di quella gara, aspettando il nostro turno per entrare in pista per Gara 2. Mi arrampicai sulla scala a pioli proprio mentre sentivo le tre Honda CBR 600 RR arrivare. Proprio in cima, quando ancora non avevo nemmeno abbandonato la scala, vidi la moto di Jones intraversarsi e lanciare il pilota in un violentissimo highside. Fu tutto così veloce che ancora oggi non riesco a capire cosa vidi davvero. L’unica cosa certa fu il dover guardare Craig scivolare lungo l’asfalto, esanime, con il casco ormai privo della visiera, a pochi metri da me. Non si mosse più, scivolò e si fermò. Null’altro. Forse fu anche colpito dalla pedana della moto di Pitt che lo seguiva, forse no. Ancora oggi guardare i filmati di quell’attimo su Youtube mi è impossibile. Rientrammo nei box. In quei momenti non ci si parla, tutti sanno cosa sta probabilmente succedendo ma contemporaneamente nessuno lo vuole sapere davvero. Andammo in pista per gara 2. In griglia, anche su richiesta di Smrz, cercai Paolo Ciabatti, che in quegli anni lavorava per FG, il gruppo organizzatore del Campionato, per chiedergli come stava Craig. La sua risposta fu: “Non bene”. Non ci fu bisogno di altre parole. Anche Jakub annuì e non disse nulla. Craig morì il giorno dopo, senza mai aver ripreso conoscenza. Aveva 23 anni, se ricordo bene. Ora vi chiedo solo una cosa, se vi è possibile. Anche se non sarete un esempio di sportività, fischiate pure contro i piloti avversari, dite loro che sono Spagnoli di merda o Italiani evasori. Per cortesia, però, non augurate nulla di male. Non augurate loro la caduta, l’infortunio o la morte, perché non solo non è quello che davvero volete ma, soprattutto, non avete la più pallida idea di cosa state augurando. Se faticate ad avere rispetto per lo sport, abbiate almeno rispetto per la vita. Per favore»

Scrissi tutto di getto, senza preoccuparmi troppo di sintassi o di vari errori grammaticali. Resi il post pubblico, affinché potessero vederlo più persone possibili. A quel punto avvenne una magia. Il post fu commentato da tantissimi amici che in quella giornata, a Brands Hatch, erano lì o seguivano la gara da casa. Piloti, meccanici, giornalisti, spettatori… Per alcune ore ci stringemmo in un abbraccio che, seppur virtuale, fu caldissimo.

Tra i commenti trovai la commozione di Gianluca Nannelli, che in quel momento era in pista con Craig, trovai le parole di Domenico Colucci, pilota della Superstock, di Massimo Pierobon, di Mario Lega e di tanti altri. Il post ottenne oltre 2000 likes e circa 700 condivisioni, facendo un po’ il giro del mondo. Così commentai anche io la foto, con l’intenzione di ringraziare tutti coloro che avevano perso un po’ del loro tempo per leggere le mie righe. In quel momento si compì un’altra magia, ancora più grande. Sotto il mio commento trovai una risposta, in inglese, nella quale una donna mi ringraziava per ciò che avevo scritto. Era la mamma di Craig. Mi dovetti sedere e mi costrinsi a prendere fiato. Io e lei non eravamo in contatto su Facebook, ma tra le centinaia di condivisioni, il mio post era giunto fino a lei. Destino? Casualità? Di sicuro so solamente che sentii di aver fatto una cosa buona, qualcosa capace di sensibilizzare qualcuno. Qualcosa che mi fece nuovamente vivere il buono delle persone, dello sport e di me stesso.

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