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Perchè i piloti non usano più il numero Uno

Da Barry Sheene a Valentino Rossi, una rivoluzione di costume che abbandona il classico “numero Uno”

Il primo è stato Barry Sheene. Lui verrà ricordato sempre per il numero 7 che ha portato sulla carena anche quando era diventato Campione del Mondo della 500 (vinse nel ’76 e ’77). Non lo mollò mai, era il suo marchio di fabbrica come il casco col paperino e quei colori là. Allora, era la seconda metà degli anni ’70, si trattava di una novità piuttosto sconvolgente e non prese piede più di tanto. All’inizio, almeno. Kenny Roberts, Freddie Spencer, Eddie Lawson, Wayne Rainey, Kevin Schwantz addirittura, per fare soltanto qualche esempio, hanno sempre preso l’1 dopo aver vinto il campionato. E quasi tutti gli altri ripartivano per una nuova stagione col numero equivalente al risultato ottenuto l’anno prima.

L’esempio di Schwantz è abbastanza clamoroso poiché tutti lo ricordano per le sue gesta, la sua spettacolarità e perché aveva sempre il “34”. Il numero Uno era un vero sogno, un traguardo ambitissimo, il marchio di una superiorità, tanto che negli USA chi diventava Campione AMA (American Motorcycle Association) si prendeva la targa “N°1”. Ognuno dei piloti di allora era spesso legato ad un numero (il 32 Steve Baker, ad esempio, il 4 per Johnny Alberto Cecotto, il 5 era il preferito di Marco Lucchinelli, il 13 di Franco Uncini), ma quando vinceva era orgoglioso di usare l’Uno. Tranne Sheene. Per molti anni andò così, con molti miti legati comunque al proprio numero come Jacques Villeneuve col 27.

Poi arrivò Valentino Rossi e il mondo delle corse cambiò. Il 46 è diventato suo, un marchio inconfondibile, un simbolo, un’icona. Una grande idea che ha rotto una tradizione lunghissima. E che ha contribuito a sostenere l’immagine del campione e del personaggio, ha permesso l’identificazione immediata e facile del tifoso, come il Cavallino per la Ferrari o la maglia per una squadra di calcio. Davvero una rivoluzione di costume anticipata da Sheene che ha preso il potere con Rossi. Consentendo anche un’altra grande fonte di guadagno per i piloti col “merchandising”.

Ora infatti tutti o quasi hanno legato la propria immagine ad un numero. Il 7 ha affascinato molti oltre a Sheene, Carlos Checa per dirne uno. Ora Marc Marquez è il 93. Dani Pedrosa il 26, Andrea Dovizioso il 4 (o meglio lo 04, visto che il 34 che aveva in 125 e 250 in MotoGP è stato ritirato per andare nella Hall of Fame insieme al suo “proprietario” Schwantz). Andrea Iannone è il 29. Marco Simoncelli era il 58 e pure quel numero non si potrà più usare. Max Biaggi adora il 3, Marco Melandri il 33.

Un numero come nome, insomma, indissolubilmente legato ad un pilota anche quando non è stato mantenuto nell’anno da Campione (Casey Stoner tra gli altri che però è e sarà sempre il 27). Ora poi che ci sono anche i social network quasi tutti utilizzano @nome, cognome, numero. Finché ce ne saranno a disposizione. Poi si vedrà. Per adesso il problema non si pone a meno di non volere lo stesso numero di un mito, ma chi lo fa da ragazzino sa già che una volta arrivato al top dovrà privarsene e farsene una ragione.

Probabilmente tutto questo è accaduto perché pian piano si è andati perdendo quello che era sempre stato il marchio di un pilota: il casco. Vi ricordate il casco tricolore di Giacomo Agostini? È sempre rimasto uguale a se stesso anche se è passato dal cromwell a scodella all’integrale AGV. Così come erano riconoscibilissimi molti piloti come Hailwood, Read, Nieto, Ferrari, Cadalora, Sheene, Cecotto, Doohan, Stoner. Oppure Senna, Patrese, Piquet, Prost, Hill e così via.

Ora il casco cambia di anno in anno, addirittura di Gp in Gp. Tanto che in Formula Uno è diventato obbligatorio usare per tutta la stagione lo stesso pena un’ammenda. Renderlo obbligatorio per legge è, a mio avviso, stupido, ma ritornare un po’ indietro e ridare valore ad una tradizione come quella del casco/marchio sarebbe bello. Purtroppo però oramai le repliche sono un tale business e i caschi “one event” così di moda (anche qui per un’intuizione di Vale Rossi e di Aldo Drudi che è il creativo) che tornare indietro sembra impossibile. Accontentiamoci del numero sulla carena, allora e così sia. E che almeno quello resti ben visibile.

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Paolo Beltramo

Giornalista con lunga esperienza televisiva (TMC/ Telecapodistria/ Telepiú/ RAI/ Mediaset) ha collaborato con molti quotidiani e riviste e seguito oltre 35 anni di motomondiale oltre a 2 Parigi/Dakar e varie gare di Superbike e nazionali.

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